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LUCIANO PAVAROTTI2019-01-09T10:10:16+00:00

Project Description

Pavarotti ci abbandonò alla fine dell’estate del 2007; aveva settantadue anni e non li dimostrava affatto. Come tutti gli uomini da palcoscenico teneva con la propria età quel rapporto ambiguo che tuttora non consente di far capire bene, al vederne una immagine distante, quanti anni avesse effettivamente in quegli ultimi trenta della sua folgorante esistenza terrena. Avevo avuto la fortuna di conoscerlo bene assai una ventina d’anni prima, quando era stato protagonista acclamato d’un Rigoletto diretto da Marcello Panni, nostro comune amico, al Metropolitan di New York. La sua voce irripetibile si esaltava fra energia istrionica e tragicità palese. Era forse quello un ruolo che Giuseppe Verdi aveva già previsto per lui un secolo e mezzo prima, o così appariva al pubblico. Fu deciso di dare una festa in suo onore, in uno di quei vasti appartamenti che la moda di quegli anni ricavava nei loft industriali riadatti. E siccome la città era allora il crogiolo della mondanità più inaspettata e trasversale approdò anche, non si sa bene se per invito o per ammirazione nei confronti del sommo tenore, quella Laura Elizabeth Campbell detta “Little Nell” dopo essere diventata nota come cantante e ballerina nel The Rocky Horror Show. Era così che si formava quella curiosa comunità di artisti, pittori e creativi d’ogni specie che lasciarono meravigliato il mondo in un’epoca spensierata che fu definita come quella dei roaring eighties, quegli anni ’80 del secolo scorso che a lungo rimarranno mitici nella memoria collettiva. Era tutto apparentemente improbabile e questi ricevimenti improvvisati e gioiosi venivano organizzati assumendo per la serata nugoli di giovani studenti, architetti in erba o filosofi già esausti, che si presentavano per il servizio in totale incompetenza ma in perfetta giacca e cravatta nera. E lì giunse Pavarotti, in tenuta da ginnastica blu con un vistoso asciugamano rosso al collo e due borse da attrezzature sportive. “vi ho portato la cena” disse. “ho preparato il pesto e ora cucino i maccheroni”. Passò la serata ai fornelli, seduto su un trespolo da bar, a gestire le pentole.
Centinaia di partecipanti lo venivano ad omaggiare con i piatti in mano; e lui sorridente continuava a riempirli a grandi mestolate. L’atmosfera d’una serata campestre emiliana s’era replicata a Manhattan. Era Pavarotti generoso per natura, teatrale per nascita e ovviamente efficace. Alcune sere dopo lo ritrovai a ristorante (e per lui venivano scelti i luoghi più in voga). Gli fu offerto un costoso vino della California. Era denso di gusto quanto arrogante di bottiglia. Chiese un bicchiere grande pieno di ghiaccio e un ginger ale. Mescolò il tutto, ghiaccio, vino e ginger ale. Poi esclamò: “così sembra un buon lambrusco!”. Provocatore intelligente! Questa sensazione di densità umana, di simpatia casareccia, di inarrestabile italianità, di genio, è tutta restituita nei rapidi schizzi di Antonio Amodio. Vista la su età non può avere conosciuto Pavarotti negli anni del suo fulgore, come ancor meno può avere incontrato Maria Callas che ritrae con uguale passionalità. Non ritrae infatti Luciano Pavarotti, ne interpreta il mito. Lo fa con la velocità mentale e gestuale di chi tenta di afferrare un fantasma che velocemente si manifesta, poi rischia di scomparire fra le ombre dalle quali proviene. Ricorda assai questo metodo quello che Henri Michaux stimolava fra i surrealisti agli albori, la nota écriture automatique, quella scrittura che non prevedeva riflessioni propedeutiche ma solo il lasciar correre l’inconscio. Con questo meccanismo della creazione letteraria allora a Parigi si rimetteva in contatto le dimensioni della sensibilità esterne con quelle tangibili, superiori alla realtà. Antonio Amodio applica una disciplina analoga ad una pittura che di primo acchito potrebbe apparire indisciplinata. Fondi stesi con velocità, tratto disegnato con impeto, macchie di colore lasciate quasi libere di correre, il tutto offre allo spirito di Pavarotti l’opportunità d’essere ritornante, di fare fremere chi lo guarda come può fremere solo chi lo ascolta.

Prof. Philippe Daverio

NB0_7819

La tua anima – 2017 – tempera grassa su tavola – cm 100×81
Vincerò – 2017 – tempera grassa su tavola – cm 100×81
La tua voce – 2016 – tempera grassa su tavola – cm 81×100
Guardando il cielo – 2017 – tempera grassa su tavola – cm 100×81
E lucevan le stelle – 2017 – tempera grassa su tavola – cm 100×81
La tua mano – 2016 – tempera grassa su tavola – cm 81×100
Braccia incrociate – 2017 – tempera grassa su tavola – cm 100×81
Forza della musica – 2017 – tempera grassa su tavola – cm 81×100
Estasi musicale – 2017 – tempera grassa su tavola – cm 100×81
Per Caruso – 2017 – tempera grassa su tavola – cm 106×146
Cavaradossi (Tosca) – 2017 – tempera grassa su tavola – cm 81×100
Requiem – 2017 – tempera grassa su tavola – cm 100×81
Il tuo cappello – 2017 – tempera grassa su tavola – cm 81×100
Rodolfo (Boheme) – 2017 – tempera grassa su tavola – cm 146×106
Grazie – 2017 – tempera grassa su tavola – cm 146×106
Il foulard turchese – 2017 – tempera grassa su tavola – cm 146×106
A mani unite – 2017 – tempera grassa su tavola – cm 100×81
Estasi in verde – 2016 – tempera grassa su tavola – cm 81×100
Ultima lettera bianca – 2017 – tempera grassa su tavola – cm 146×106

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